Drill, baby drill: la ricetta di Trump in tema di energia
La nuova agenda energetica del presidente USA mira a sviluppare il settore estrattivo statunitense con impatti a livello geopolitico e strategico
“Perforeremo più petrolio e gas di qualsiasi altro paese sulla Terra […] Abbasseremo i prezzi, riempiremo le nostre riserve strategiche fino al massimo ed esporteremo l’energia americana in tutto il mondo”.
Questi i propositi sul lato energetico annunciati da Trump nel discorso di insediamento del 20 gennaio scorso. È una cosa fattibile? E in quanto tempo potranno essere raggiunti questi obiettivi?
Petrolio
Già oggi gli Stati Uniti sono il maggior produttore di petrolio, il grafico in pagina mostra a cadenza settimanale l’evoluzione dell’estrazione che dai 13,1 milioni di barili al giorno (Mbd) nell’aprile dello scorso anno è salita a fine gennaio 2025 a 13,5 Mbd, poco sotto i massimi di 13,6 Mbd. Una produzione in crescita malgrado il costante declino dei pozzi di shale oil, dai 511 di aprile 2024 ai 472 di fine gennaio. Da un lato ciò è il risultato di una maggiore efficienza delle tecniche estrattive per singolo pozzo, dall’altro potrebbe far supporre qualche difficoltà nel ritmo di espansione delle trivellazioni. Al tempo stesso, le scorte di petrolio negli Stati Uniti restano sui minimi storici a poco meno di 412 milioni di barili, come si vede nel grafico in pagina. Potrebbe apparire un controsenso: produzione ai massimi e scorte ai minimi, ma è il risultato combinato di un aumento dei consumi interno a cui si sommano esportazioni sostenute.


In pratica, una parte del programma di Trump sta già avvenendo senza che il nuovo Presidente abbia ancora avuto modo di dare una sua impronta. Ma le mire di Trump si spingono anche nel dettare ciò che gli altri dovrebbero fare, pena le sanzioni: l’OPEC+, ad esempio, dovrebbe aumentare la produzione in modo di far scendere il prezzo. Proprio il contrario di ciò che l’OPEC+ sta facendo, visto che ha circa 6 Mbd di capacità produttiva inutilizzata, e la ragion d’essere dell’Organizzazione è proprio limitare la produzione al fine di sostenere i prezzi. E qui si entra in una tematica capace di spezzare il precario equilibrio fra i due maggiori protagonisti dell’OPEC+: Arabia Saudita e Russia, rispettivamente seconda e terza maggior produttrice mondiale.
L’Arabia Saudita, pena la tenuta dell’OPEC+, non avrebbe difficoltà ad aumentare l’attuale produzione di 8,9 Mbd sino a superare gli 11 Mbd; anche se il prezzo scendesse sensibilmente resterebbe ampiamente in guadagno, pur con qualche ripercussione sulla spesa pubblica. Inoltre, in segno di volontà collaborativa, il principe ereditario Mohammed bin Salman ha già promesso al presidente Donald Trump investimenti di 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti.
Al contrario la Russia, impegnata nel conflitto con l’Ucraina, vede nei ricavi del settore energetico la fonte principale di sostentamento economico e già viene costretta ad applicare un forte sconto sul prezzo del barile per aggirare difficoltà sempre più crescenti nella vendita. Inoltre, le ultime sanzioni applicate da Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea alla flotta ombra russa, che contemplano il divieto di accesso ai porti e la fornitura di servizi di supporto, sono arrivate a colpire 270 navi e avrebbero indotto anche Cina e India a frenare l’uso di tali vettori. Passando alle prospettive di prezzo, appare interessante un sondaggio svolto dalla Federal Reserve di Dallas presso gli operatori del settore, i quali hanno indicato per fine 2025 una quotazione del WTI fra 70 e 75 dollari il barile per il 35% degli intervistati, fra 65 e 70 dollari il 25%, solo il 18% si è espresso per un prezzo tra 75 e 80 dollari e solo il 3% si è sentito di indicare un valore superiore agli 85 dollari. Mettendo tutto insieme, ne deriva il fatto che brucianti rialzi per il petrolio sono improbabili per l’anno in corso e quindi si dovrà privilegiare un’operatività da trading range. Il WTI tende a oscillare in due grandi zone: la prima tra 66 e 72 dollari e la seconda tra 72 e 80 dollari, la violazione di una tende a far gravitare sull’altra. Il Brent quota circa 3 dollari al barile in più del WTI, ma questa differenza tende talvolta a stringersi a 2 dollari oppure ad ampliarsi a 4,5-5 dollari il barile.
Gas Naturale
Gli Stati Uniti sono anche i maggiori produttori di gas naturale, nel grafico possiamo osservare l’aumento di produzione di shale gas negli ultimi anni, con i giacimenti di Marcellus, Permian e Haynesville che contano per oltre il 70% della produzione di gas statunitense. Il giacimento di Marcellus è situato nella regione dei Monti Appalachi, nel nord-est, mentre Permian e Haynesville si trovano a sud principalmente in Texas.

Gli Stati Uniti da diversi anni stanno ampliando la capacità di liquefazione al fine di esportare via nave e Trump ha minacciato nuove sanzioni all’Europa se non importerà più gas statunitense. E infatti, il prossimo pacchetto di sanzioni europee alla Russia dovrebbe riguardare il bando dell’importazione di GNL russo, chiudendo quasi totalmente lo sbocco del gas russo via tubo o via nave verso l’Europa.
L’Europa resta dipendente da forti importazioni di gas con un equilibrio fragile: la rigidità di quest’inverno ha ridotto gli stoccaggi medi in Europa al 56% della capacità di immagazzinamento, contro oltre l’85% dell’anno scorso. Ciò ha determinato una continua crescita delle quotazioni europee giunte a lambire la soglia dei 50 euro per Megawattora contro i 22 del marzo scorso. Spostandoci sulle quotazioni del Gas Henry Hub, a cui gli strumenti finanziari fanno riferimento, possiamo considerare che abbiano già corso molto e, sebbene la tendenza appaia solida, non si possono escludere veloci escursioni in entrambe le direzioni. Per questo l’operatività dovrebbe orientarsi al medio-breve termine, alternando posizioni long e short a seconda della direzione del prezzo.

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