La riforma fiscale di Trump: gli effetti e le previsioni

Tax Cuts and Jobs Act: le novità sulla tassazione statunitense



FTA Online News, Milano, 20 Apr 2018 - 09:55
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha siglato il 22 dicembre 2017, due giorni dopo il via libera del Congresso al disegno di legge, il Tax Cuts and Jobs Act, ossia la più rilevante riforma fiscale statunitense degli ultimi decenni.

L’attenzione dei mercati è stata attirata soprattutto dal consistente taglio della tassazione dei redditi delle imprese dal 35 al 21% con la contemporanea eliminazione di alcune detrazioni e crediti precedentemente previsti. Uno studio di Credit Suisse ha valutato che a fronte di un’aliquota ufficiale del 35%, prime della riforma le imprese statunitensi pagavano in media  il 27% in media, ma che dopo di essa avrebbero versato in media un’aliquota prossima al 20%, con un balzo dell’utile netto per azione superiore al 10%.

Al taglio delle tasse per le imprese vanno però necessariamente accostate le altre importanti norme introdotte dal Tax Cuts and Jobs Act, a partire dalla revisione delle aliquote fiscali sui redditi personali e delle famiglie.
Va premesso al riguardo che mentre in Italia le aliquote Irpef sono suddivise in 5 scaglioni che passano dal 23 al 43% negli Stati Uniti erano e sono previsti 7 scaglioni, sia per contribuenti singoli che per coppie regolarmente sposate. La nuova riforma fiscale USA ha abbassato l’aliquota massima dal 39,6 al 37% per entrambi i tipi di dichiaranti. Più nello specifico per i dichiaranti singoli rimane al 10% l’aliquota più bassa (redditi da 0 a 9.525 dollari), ma flette dal 15% al 12% quella per i redditi fino a 38.700 dollari. Si riduce dal 25 al 22% l’imposizione prevista per la successiva fascia che si modifica riducendo il limite superiore da 93.700 a 82.500 dollari. La fascia successiva viene posta a 157.500 dollari (da 195.450 dollari), con una riduzione dell’aliquota dal 28 al 24 per cento. L’aliquota successiva passa dal 33% al 32% ma si applica ora al range 157,500 – 200,000 dollari  (in precedenza arrivava a 424,950 dollari). Rimane fissa l’aliquota al 35% che adesso si applica tra i 200 e i 500 mila dollari di reddito. L’aliquota massima del 39,6% (prima pagata a partire da 426.700 dollari) flette al 37% per i redditi da 500 mila dollari in su. Sostanzialmente paralleli gli interventi sulle famiglie regolarmente sposate.
Quali sono gli effetti di questi tagli delle tasse? Uno studio del novembre 2017 dell’Institute on taxation and economic policy (ITEP), una non-profit indipendente fondata negli anni Ottanta e diventata un riferimento nell’analisi delle politiche fiscali USA, ha calcolato che il nuovo provvedimento in pratica alza l’imposizione fiscale per almeno il 29% degli americani. Lo spaccato della popolazione USA per reddito evidenzia che sono le fasce più povere a subire un incremento delle tasse, segnatamente di 220 dollari per il 20% della popolazione più povera, di 200 dollari per il successivo 20%, di 60 dollari per il 20% medio successivo. Solo il percentile successivo, 60-80% nella distribuzione per fasce di reddito, ottiene un calo delle tasse di 70 dollari. Il successivo 15% ottiene in media uno sconto fiscale di 170 dollari, mentre il 4% della popolazione (tra il 95 e il 99% della popolazione) ottiene una riduzione delle tasse di 940 dollari e il rimanente 1% della popolazione più ricca degli Stati Uniti ottiene uno sconto fiscale di ben 9.090 dollari. Se dunque in media le tasse diminuiscono di 50 dollari a contribuente, in realtà il 60% della popolazione registra incrementi dell’imposizione fiscale, che grosso modo equivarrebbero agli sconti fiscali ottenuti invece dagli investitori stranieri (circa 22 miliardi di dollari complessivamente).
Non stupisce che molti abbiano giudicato in concreto regressiva questa riforma delle aliquote fiscali personali negli Stati Uniti e che anche miliardari come Bill Gates e Warren Buffet abbiano criticato sia l’impostazione fiscale favorevole ai più ricchi, sia i reali benefici fiscali per le imprese.

Non è stato meno discusso l’impatto sui conti pubblici statunitensi del Tax Cuts and Jobs Act. Sempre secondo l’ITEP, anche includendo nel calcolo la presunta e notevole crescita economica prevista dal legislatore, in dieci anni la nuova riforma fiscale aumenterà di ben 1.500 miliardi di dollari il deficit degli Stati Uniti. Il CBO (Congressional Budget Office), un ufficio federale indipendente del Congresso che valuta le previsioni di budget, ha stimato un impatto cumulativo decennale (dal 2018 al 2027) di 1.400 miliardi di dollari che, aggiungendo i connessi servizi aggiuntivi sul deficit, porterebbe a un ulteriore disavanzo degli Stati Uniti di 1.700 miliardi di dollari nel 2027. Il debito pubblico USA stimato fino a giugno 2017 a al 91,2% del Pil nel 2017, secondo le nuove proiezioni si porterebbe per quella data al 97,1 per cento. Previsioni che hanno proiettato ombre fosche sulla tenuta prospettiva dei conti pubblici della maggiore economia del mondo.

Altri impatti e vantaggi assai più immediati si sono però registrati da subito. GE (General Electric) ha valutato un onere da 3,4 miliardi di dollari a seguito del passaggio al nuovo sistema di tassazione con un impatto dovuto a nuove riserve per le attività assicurative (North American Life & Health) pari a un onere dopo le imposte da 6,2 miliardi di dollari nel quarto trimestre del 2017 (e che comporterà altri sostanziosi contribuiti per anni). JP Morgan ha stimato un impatto da $ 2,4 mld sugli utili del quarto trimestre 2017 a causa della riforma che ha imposto oneri fiscali collegati al rimpatrio di attività estere e a svalutazioni di alcuni investimenti. Complessivamente per JP Morgan la riforma ha comportato un calo del 37% degli utili trimestrali. Goldman Sachs ha stimato un impatto dalla riforma fiscale di $ 4,40 mld derivanti per 3,32 mld dalla tassazione sul rimpatrio di attività e per 1,08 mld dall’implementazione del sistema fiscale territoriale e dal ricalcolo dei crediti d’imposta ad aliquote minori. Il quarto trimestre della banca d’affari è stato così portato dalla riforma a una perdita netta da $ 2,14 mld.
L’impatto del Tax Cuts and Jobs Act per Citigroup è stato però ancora maggiore, con una perdita trimestrale da $ 18,3 mld di dollari sostenuta per via di oneri da 22 mld collegati alla riforma fiscale. Di questi ben 19 mld sono derivati dalla svalutazione dei crediti d’imposta e dal passaggio a un regime territoriale e 3 mld dal rimpatrio di asset. Reuters calcolava nel tardo gennaio 2018 un impatto di ben 32,9 miliardi di dollari sulle prime cinque banche degli Stati Uniti derivante proprio dalla riforma fiscale. La tedesca Deutsche Bank, fortemente presente negli States, ha registrato per via della riforma fiscale USA un impatto da circa $ 1,4 mld che ha portato a una perdita nella divisione a stelle e strisce di $ 0,7 mld nel quarto trimestre 2018 collegata al ricalcolo dei crediti d’imposta.

Per la maggior parte degli osservatori però questi oneri straordinari sono stati soltanto nuvole passeggere in un cielo proiettato verso il sereno: l’analista di Wells Fargo Mike Mayo ha stimato in circa 30 miliardi di dollari i risparmi sulle tasse che le banche dovrebbero raggiungere ogni anno. Senza considerare il rafforzamento della loro competitività soprattutto nel mercato domestico.

Il corporate America ha inoltre varato una serie di nuove operazioni di riacquisto di azioni proprie: Cisco ha annunciato incremento dei buyback da $ 25 mld, Wells Fargo uno da circa $ 22 mld, Pepsi uno da 15 mld, Amgen e Abbvie da 10 mld e Alphabet, la controllante di Google, uno da 8,6 mld. L’analista di Birinyi Associates Jeffrey Rubin ha calcolato che tra il primo gennaio e il 20 febbraio del 2018 sono stati annunciati acquisti di azioni proprie per l’astronomica cifra complessiva di 173 miliardi di dollari.

Un ottimismo sul futuro che si è riflesso anche in bonus per i lavoratori e incrementi dei salari: Walmart ha alzato lo stipendio minimo a 11 dollari l’ora e annunciato un bonus da mille dollari per dipendenti (costo complessivo 700 milioni di dollari). American Airlines ha annunciato un bonus da mille dollari (costo complessivo 130 mln) e Wells Fargo ha alzato il salario minimo dei dipendenti da 13,5 a 15 dollari l’ora.

I festeggiamenti insomma non sono mancati, anche se il timore di molti analisti economici è che la crescita dell’economia reale degli Stati Uniti si traduca nel tempo in un debito sempre più insostenibile che potrebbe minare la tenuta dei conti a stelle e strisce.


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