Net Neutrality

Concetto di neutralità della rete



FTA Online News, Milano, 25 Ago 2014 - 15:18

Si è molto parlato di net neutrality recentemente, ma il concetto di neutralità della rete non è una novità. A rendere d’attualità la net neutrality è una delle tante rivoluzioni che hanno caratterizzato lo sviluppo del Web: il passaggio dalla fruizione di contenuti video attraverso il tradizionale broadcasting (via etere, satellite o cavo) a quella basata su protocollo Ip. Rivoluzione che si concretizza con un consumo di banda in crescita esponenziale. Basti pensare che già nel 2012 YouTube occupava il 20% della banda in Europa. E, secondo uno studio di Sandvine, nel primo semestre 2014 in Nordamerica il 59% della banda su rete fissa è di quello che viene definito Real Time Entertainment (quasi il 64% per il solo download di dati).

Per net neutrality di fatto s’intende che i dati che passano sulle reti di tlc devono essere trattati tutti allo stesso modo: non vi sono dati di importanza maggiore, dati che vengono trattati con più riguardo (in pratica maggiore velocità di trasferimento) rispetto ad altri. Il tema è sempre stato a cuore di quanti sostengono che Internet debba essere un mondo libero da restrizioni e condizionamenti. Più di recente, però, la net neutrality è balzata agli onori delle cronache in seguito a due pronunce ufficiali da parte delle autorità: dapprima la Ue e in seguito la Federal Communications Commission (Fcc, l’authority Usa che regola le tlc). Normative o semplici indicazioni che, al di là dei buoni propositi di tanti (il presidente Barack Obama ha da sempre fatto della net neutrality un suo cavallo di battaglia), nascono da un’evidente necessità: la regolazione di un business che sta esplodendo.

Due i principali motori di questa evoluzione. Il primo è la crescita dell’uso di terminali mobili e del consumo di banda che questo comporta per la fruizione in streaming di contenuti audio e video (la visione del tg o di una partita di calcio fuori dal tradizionale habitat televisivo casalingo). Il secondo, ancor più deflagrante, è l’emergere di nuovi player che stanno cambiando le regole del gioco. Su tutti un solo nome: Netflix, società californiana che prima ha mandato in pensione le videoteche (contribuendo alla bancarotta di Blockbuster) grazie all’innovativo, per allora, sistema di noleggio via posta e, più di recente, ha messo in discussione l’intero sistema televisivo che, tra satelliti, pay-tv e contenuti on demand, non è cambiato poi molto nei quasi 70 anni di dominio dei salotti. La conferma è arrivata nell’autunno 2013, quando in occasione dei risultati trimestrali Netflix ha annunciato il sorpasso su Hbo, storica pay-tv Usa, per numero di abbonati: 31 milioni contro 29. Da allora, complice l’esordio anche nella produzione di contenuti, con serie pluripremiate come House of Cards, la crescita dei fornitori d’intrattenimento in streaming (Netflix non è sola: anche Amazon, tra gli altri, punta forte sul business) ha evidenziato le inefficienze delle reti. Dando il via a una dura disputa tra fornitori di contenuti e tlc. Nulla di nuovo, anche in Italia per anni il numero uno di Telecom Franco Bernabè ha lamentato il fatto che i colossi del Web sfruttassero le reti degli operatori senza compensarli adeguatamente. Ma allora l’imputato era Google, e YouTube, oggi e soprattutto in Usa, la scala del problema è decisamente maggiore e i responsabili altri. Sempre secondo lo studio di Sandvine, Netflix nel primo semestre di quest’anno è arrivata a utilizzare oltre il 34% del traffico in downstream in Nordamerica (YouTube è seconda con il 13,19%).

Il punto di vista di società come Netflix, in linea con gran parte degli utenti, è che i consumatori già pagano per avere una banda adeguata allo streaming e quindi sarebbe un’ingiusta gabella la richiesta di un ulteriore esborso. D’altra parte gli operatori delle reti lamentano il costo delle infrastrutture, che vorrebbero condiviso tra quanti della rete fanno business. Il tema è controverso per diversi motivi. Spesso sono gli stessi operatori telefonici a offrire contenuti on demand, in diretta concorrenza con società come Netflix. In Italia, per ora, l’espansione del business non è tale da giustificare attriti paragonabili a quelli in Usa e le esperienze dei provider nel settore si sono rivelate poco fruttuose (Telecom Italia continua a crederci, mentre Fastweb ha mandato in pensione i suoi servizi tv, limitandosi al solo sito Chili) e più in generale si assiste ad alleanze tra i principali player (Vodafone con Mediaset, Telecom Italia con Sky).

In apparenza, la Ue si è portata avanti, approvando nell’aprile 2014 regole che stabiliscono che su Internet tutti i dati debbano essere considerati uguali indipendentemente da piattaforme, applicativi o utenze. Ma il complesso iter normativo della Ue, che prevede l’approvazione di tutti i singoli Stati, è ulteriormente ritardato dalle elezioni del nuovo Parlamento, che probabilmente non tornerà a discuterne prima dell’autunno 2014. Con maggiore pragmatismo la Fcc in maggio ha di fatto aperto il dibattito (chiunque può esprimere il suo parere entro il 10 settembre), indicando che il principio di net neutrality in teoria non si discute, ma ammettendo che in pratica dovrebbe essere consentito fornire maggiore banda a chi paga di più. D’altronde dopo mesi di querelle tra i diversi player la soluzione ovvia sarà quella di accordi tra i principali operatori. Ancora in giugno, per esempio, Netflix continuava a inviare messaggi agli utenti in cui sottolineava che la causa del disservizio era l’intasamento del network dell’operatore. Verizon ha intimato a Netflix di smettere. Alla fine, verosimilmente, i due troveranno un accordo monetario. "Pur assicurando la net neutrality, è necessario riconoscere il valore della differenziazione, perché rappresenta il catalizzatore per gli investimenti", ha detto il numero uno di Italtel Stefano Pileri a Digital Venice 2014.


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