La Guerra delle Valute

La crisi dei mercati globali ha spinto rapidamente le maggiori banche centrali del mondo ad abbassare il costo del denaro



FTA Online News, Milano, 26 Nov 2010 - 11:45

La crisi dei mercati globali originatasi con i mutui subprime negli Stati Uniti e dunque allargatasi alla finanza mondiale e all’economia reale ha spinto rapidamente le maggiori banche centrali del mondo ad abbassare il costo del denaro per facilitare con una politica fortemente espansiva la ripresa economica.

Fondi straordinari sono stati creati negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone e anche nelle economie emergenti – Cina compresa – per sostenere i settori più fragili delle economie locali. Con la discesa dei tassi ai minimi storici e la persistenza di condizioni precarie della domanda nelle economie sviluppate si sono, però, generati nuovi scenari che, nelle accorte precisazioni della diplomazia internazionale, hanno trovato il loro principale catalizzatore nell’incontro dei grandi della terra al G20 di Seoul.

A fine 2010 la Bce presta il denaro alle banche all’1% e gli Stati Uniti mantengono le proprie manovre valutarie entro lo 0,00-0,25% mentre la Banca del Giappone presta yen allo 0,1 per cento. Allo 0,5% si attesta il tasso di sconto della Banca centrale d'Inghilterra. In queste condizioni i margini per le manovre di deprezzamento della valuta si sono ridotti al lumicino e, come evidenziato da molti, la politica monetaria incentrata sulla leva dei tassi in pratica non ha più margini.

Gli stati però hanno ancora un enorme bisogno di una valuta debole per incoraggiare, in mancanza di domanda interna, la domanda estera. Con l’inflazione ancora in molti casi sotto controllo la stessa Fed decide dunque di procedere a operazioni di mercato aperto che hanno il chiaro effetto di stimolare in maniera forzosa l’economia con l’emissione di nuova moneta e l’acquisto di asset finanziari. Circa 600 miliardi di dollari saranno investiti nel sostegno dell'economia da parte della Banca centrale americana. Tutto questo potrebbe portare a un deprezzamento del dollaro che rilancerebbe i prodotti americani nei mercati globali.

Dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, però, la Cina persegue una politica assolutamente simmetrica e da tempo compra asset stranieri e titoli del Tesoro Usa anche con l’obiettivo di fare apprezzare il biglietto verde e rilanciare le proprie esportazioni in yuan sui mercati a stelle e strisce.

Gli attriti fra i due paesi, sulle cui posizioni si articolano secondo interessi diversi sia l’Europa che le altri economie emergenti, raggiungono il culmine in vista dell’incontro del G20 di Seul. I vertici americani accusano sempre più apertamente Beijing di favorire svalutazioni competitive, nel frattempo però la Fed vara l’acquisto graduale di asset per 600 miliardi di dollari venendo accusata da altri player globali di tenere forzosamente basso il dollaro per incoraggiare le proprie esportazioni.

Al termine degli incontro di Seul però arrivano ben poche certezze su questo fronte e i paesi membri pur ammettendo la necessità di correggere i maggiori squilibri commerciali, non prendono posizioni specifiche. L’Europa cede due poltrone del Fondo Monetario Internazionale ai paesi emergenti e, al contempo, cerca di rassicurare i mercati dichiarando di avere tutti i mezzi a disposizione per intervenire in caso di necessità in Irlanda, dove una forte crisi finanziaria rischia di mandare in default la finanza di Dublino.

In merito a una paventata soglia del 4% agli eccessi o difetti della bilancia commerciale dei paesi del G20 nessuna soluzione definitiva viene trovata. Nei mesi successivi la recrudescenza della crisi europea riporta nuovamente al ribasso l’euro che però diversi osservatori vedono nel medio termine abbastanza stabile in un range 1,35-1,40 sul dollaro.

Nel frattempo il rischio inflazione inizia a palesarsi in Cina dove il graduale apprezzamento dello yuan non sembra essere stato sufficiente e la facilità eccessiva del credito si ripercuote in rincari nel settore alimentare e in una corsa dei prezzi che comincia a preoccupare anche la politica.

Qualche osservatore anglosassone fa inoltre notare che seppure il surplus commerciale sia atteso a fine 2010 a 270 miliardi di dollari esso dovrebbe mantenersi ancora sotto il 4% del Pil di Pechino, il che potrebbe significare che qualche fenomeno correttivo, più o meno guidato, è già in atto. Al riguardo anzi va osservato che i tassi d’interesse cinesi sono già stati alzati due volte, ma la valuta cinese non è libera di oscillare come le altre e dunque in questo caso non è detto che essa si apprezzi automaticamente nel tempo. Va infine ricordato che altri interventi in qualche maniera restrittivi sono venuti da Pechino con l’incremento delle riserve obbligatorie delle banche commerciali e che da tempo diversi osservatori anche cinesi sottolineano l’importanza di stimolare i consumi interni del Paese anche a scapito dell’economia internazionale.

Le tensioni sulle valute, che avevano visto contrapporsi nazioni esportatrici come la Germania, il Giappone e il Brasile alle posizioni degli Usa, insomma potrebbe essersi raffreddata, almeno temporaneamente.


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