Comuni e investimenti sui Derivati
Indagine sulla finanza derivata nei Comuni
FTA Online News, Milano, 07 Mag 2010 - 15:38
Secondo un’indagine conoscitiva condotta nel 2007 dalla Corte dei Conti sull’utilizzo e la diffusione della finanza derivata nelle pubbliche amministrazioni, il debito complessivo di Comuni e Province ammontava a 55,4 miliardi di euro. Di questi il 57,5% (pari a 31,9 miliardi) erano prodotti derivati.
Per quanto riguarda i Comuni, il totale del debito ammontava a 46,6 miliardi (di cui 27,3 miliardi in prodotti derivati), mentre per quanto riguarda le Province, di 8,8 miliardi di debito complessivi, i derivati ammontavano a 4,6 miliardi.
La relazione, che esclude le regioni Piemonte, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, evidenziava che a utilizzare gli strumenti derivati sono stati 737 comuni, pari all’11,4% del totale, per lo più concentrati in Lombardia (93 enti) e Campania (66 enti).
Secondo i dati raccolti, nel bilancio di previsione 2008 i Comuni che prevedevano perdite in relazione alle operazioni in strumenti derivati erano il 52,5%, cioè 387 enti su 737, mentre il 36,8% riteneva positiva la situazione dell’operazione e il 10,7% non aveva fornito informazioni a riguardo.
Gli strumenti finanziari derivati includono swap, future, opzioni o forward: il loro valore deriva da quello delle attività sottostanti, quali ad esempio valute, merci, titoli, crediti, indici finanziari o di altro tipo e vengono utilizzati per coprire imprese e istituzioni dai rischi legati alle loro attività (rischio di cambio, di tasso di interesse, di oscillazione dei prezzi delle materie prime, e a partire dagli anni ‘90, rischio di credito).
Gli strumenti finanziari quotati sui mercati regolamentati sono standardizzati per scadenze, ammontare e termine di consegna.
Quelli invece confezionati in rapporto alle specifiche esigenze del contraente, che hanno spesso per oggetto attività e/o scadenze non disponibili nei mercati organizzati, vengono detti ‘Over the Counter’ (Otc).
A rivelarsi deleterio è stato l’uso improprio dei derivati soprattutto da parte degli enti locali di dimensioni minori con scarsa conoscenza dei mercati finanziari e degli strumenti innovativi, che se ne sono serviti con finalità di liquidità connesse a vantaggi a breve termine di cassa, per far fronte ai propri fabbisogni.
La Corte dei Conti ha definito una “spirale perversa” quella innescata dal rialzo dei tassi d’interesse e dallo “smontaggio” di vecchi derivati in perdita, rimpacchettati in nuovi derivati a condizioni “sempre più rischiose, squilibrate e opache”, con continue perdite che andavano a pesare sulle gestioni future e con esposizioni finanziarie “progressivamente crescenti e insostenibili”. La rinegoziazione di debiti e derivati per far fronte al finanziamento di fabbisogni di cassa continua a far spostare le perdite e il pagamento delle rate più onerose in avanti.
Ecco perché dal 25 giugno 2008 il ricorso ai derivati è stato vietato per legge per la durata di un anno, in attesa di un nuovo regolamento.
D’altra parte in Paesi come la Germania o l’Inghilterra è da oltre 20 anni che i derivati sono proibiti agli enti locali in quanto ritenuti strumenti speculativi ad alto rischio che in precedenza avevano creato numerosi dissesti finanziari.
In questi Paesi alcune leggi specifiche hanno dichiarato nulli i contratti sottoscritti dagli enti locali con le banche, obbligando queste ultime a risarcire i contraenti.
In Italia l’esempio più eclatante è stato quello del Comune di Milano. L’indagine partita nell’aprile del 2008 ha fatto luce su uno swap trentennale del 2005 concluso tra Palazzo Marino e quattro banche: a quell’epoca l’Amministrazione Albertini ha emesso sul mercato un bond da 1.685 milioni di euro a tasso fisso e rata costante per fare cassa e in tal modo estinguere mutui precedenti. Le quattro banche (Jp Morgan, Depfa, Deutsche Bank e Ubs) hanno venduto il bond e versato la somma al Comune e l’Amministrazione si è impegna a restituire l’importo entro il 2035.
Secondo la procura tuttavia, il prodotto offerto al Comune di Milano “non rispettava il valore complessivamente nullo di uno swap all’atto della sua stipula, secondo la prassi e la condotta di mercato”: al momento della sottoscrizione, per gli istituti di credito c’è stato infatti un guadagno immediato mentre la normativa prevede che il valore del contratto sia nullo e che quindi i due contraenti debbano partire dallo stesso livello. Il guadagno realizzato dalle banche al momento della sottoscrizione è stato poi inserito a bilancio come profitto, come prescritto dai principi contabili internazionali (in particolare dallo Ias 39).