Approccio Top-Down e Bottom-Up: definizione e differenze
Scopri di più sugli approcci top-down e bottom-up, le due distinte tecniche dell’asset allocation a confronto
FTA Online News, 19 Lug 2022 - 16:31
Esistono due approcci fondamentali alla gestione degli investimenti: uno va dal generale al particolare, l’altro parte invece dal particolare per arrivare al generale.
In termini più strettamente finanziari si parla di asset allocation (gestione degli investimenti) con approccio top-down (dall’alto verso il basso) o con approccio bottom-up (dal basso verso l’alto).
In concreto si tratta di due diverse pratiche di investimento che spesso tendono a mescolarsi. È però utile e importante comprenderne le differenze.
Se infatti tutti gli investitori cercano di raggiungere il rendimento migliore possibile, dato un certo profilo di rischio, il bilanciamento dei rischi e dei rendimenti si nutre sempre di scelte. Scelte che hanno dietro un ragionamento che può partire appunto dall’alto o dal basso.
L’approccio top-down
L’approccio top-down è, come dice il nome, una strategia di investimento basata sulla scelta delle allocazioni di portafoglio come ultimo passaggio di un ragionamento più generale sulle condizioni dei mercati, dei settori, delle economie.
In questo approccio l’investitore, generalmente un fondo o un soggetto istituzionale, svolge un’analisi complessa delle condizioni macroeconomiche, prendendo in considerazione variabili generali, come il Pil, il livello dei tassi di interesse, della disoccupazione, della domanda aggregata e così via. Stabilite le condizioni generali di un mercato (per esempio gli Stati Uniti, l’Europa o la Cina), si analizzano stato e prospettive delle varie asset class (i tipi di investimento, come l’azionario, l’obbligazionario, il valutario, le materie prime etc.). Ogni passaggio si collega al precedente, perché una visione generale sull’andamento dell’economia può suggerire di privilegiare una certa asset class o di ridurne il peso nel portafoglio.
Le prospettive sull’inflazione possono suggerire, per esempio, delle posizioni sul mercato valutario o sull’oro, mentre le collegate proiezioni sui tassi possono suggerire posizioni sull’obbligazionario o sulle materie prime. Si può anche decidere già in questa fase di ricorrere a certe categorie di strumenti invece che ad altre perché le condizioni e le prospettive del mercato lo suggeriscono.
Stabilite le proporzioni delle varie asset class in un portafoglio, anche in base al profilo di rischio deciso, si può passare a un’analisi più specifica. Anche in questo caso le scelte possono essere ampie e devono essere coerenti.
In genere si sceglie a questo punto la geografia degli investimenti, per esempio le esposizioni sugli Stati Uniti o sugli emergenti. Oppure si può ragionare sulle valute o su alcune macro-categorie, per esempio i Paesi esportatori di materie prime o quelli eccellenti in determinate industrie o servizi o ancora quelli dal debito pubblico investment grade o ancora quelli esposti a tensioni geopolitiche o economiche particolari.
Partendo anche in questo caso dal generale, si analizzano poi i settori che sembrano più avvantaggiati dal contesto e dalle relative attese. Per esempio, in certe condizioni di crescita dell’economia possono essere considerati più vantaggiosi gli investimenti in titoli ciclici come l’elettronica o il comparto bancario, mentre in condizioni opposte possono apparire più promettenti investimenti in titoli anticiclici come le utility o l’alimentare. L’analisi settoriale può essere (e generalmente è) ancora più complessa perché può ospitare considerazioni diverse dall’attività industriale delle società, per esempio si possono scegliere i titoli in base alla capitalizzazione di mercato (large cap vs. small cap) o alla loro appartenenza a un indice di sostenibilità o ancora al fatto che abbiano determinati parametri finanziari o economici, come per esempio dividendi elevati o tassi di indebitamento bassi. Fondamentali a questo punto sono i benchmark, perché spesso fanno da riferimento ai fondi di investimento e agli altri strumenti. Un benchmark permette inoltre di avere un riferimento medio di settore con cui confrontare le eventuali posizioni su singoli titoli del paniere. Chiaramente è questo il momento in cui si prendono in considerazione le singole azioni o i settori, si fanno dei ragionamenti sul tipo di esposizione (si può ricorrere a fondi settoriali, a ETF, a posizioni di hedging, si possono bilanciare le esposizioni in una direzione con altre di segno diverso in un’ottica di differenziazione del rischio, etc.).
L’approccio bottom-up
C’è chi invece preferisce partire dal particolare per arrivare all’universale. Da una singola società, o quasi, che sembra promettente e vuole avere in portafoglio. In questo caso l’approccio è più puntuale, ma non meno articolato. In genere infatti si guardano i cosiddetti “fondamentali” del titolo, la qualità del management, le attese sugli utili, i vari “ratio” che permettono di capire se la valorizzazione è a sconto, per esempio, sugli utili o sui margini attesi o ancora se il titolo è sottovalutato o sopravvalutato rispetto al settore o ai competitor. Si ragiona quindi su rapporti come EV/EBITDA, P/E, Dividend Yield, ROE, ROS e così via. Spesso però si guarda anche alla solidità delle imprese in questione, quindi si analizzano ratio patrimoniali come debt/equity o net debt/ebitda o anche il patrimonio netto per azione o il flusso di cassa. In genere un’analisi di questo tipo si nutre anche dei vari report degli analisti sui singoli titoli e sui loro settori e basa la propria scelta sulla convinzione che la società abbia del valore inespresso. Ovviamente si guardano anche i grafici della società e del settore per la scelta del timing e dei livelli di ingresso.
Da questa scelta derivano altre scelte collegate. Se si pensa che questa società brilli nel futuro più o meno prossimo, sarà naturale interrogarsi sul settore di riferimento e valutare altre posizioni in materia. È probabile poi che alcune delle valutazioni maturate si allarghino ad altri settori dell’economia. Se si pensa che una società mineraria si arricchirà con l’estrazione del litio e l’esportazione di materiale per le batterie, forse si cercheranno altri operatori della filiera della green economy oppure si vorranno prendere posizioni sulle valute di riferimento dell’operazione o forse anche aprire posizioni di hedging per ridurre i rischi. Si potrebbe così passare da una miniera cilena a una posizione sul peso cileno (o al contrario sul dollaro), quindi a una multinazionale cinese delle batterie o ancora a una casa americana delle auto elettriche e così via. Ogni posizione richiamerà naturalmente i suoi opposti o i relativi bilanciamenti. Per esempio si potrebbe credere che una società abbia grandi prospettive sugli utili, ma volere al contempo bilanciarne il peso in portafoglio con attività tradizionali ritenute meno rischiose, anche soltanto per ridurre il profilo generale di rischio del portafoglio. Si potrebbero quindi a quel punto comprare titoli di Stato o preziosi per bilanciare il rischio o aprire posizioni su altre valute. Come si vede pian piano si tenderà a passare dai dati individuali del titolo, ai settori, alle geografie, alle asset class, alle considerazioni macroeconomiche più generali. Dal basso verso l’alto nella definizione di una asset allocation coerente.
L’approccio misto
Quasi sempre l’orientamento degli investitori professionali è misto rispetto a queste due tecniche. Bisogna infatti collegare ragionamenti spesso distanti, ma che necessitano di un approccio coerente per evitare la dispersione degli investimenti e risultati contraddittori. Analisi macroeconomiche anche raffinate potranno creare il “paesaggio” in cui forse per altre vie si incontreranno società promettenti dai fondamentali solidi. Il raccordo tra le posizioni valutate nel o per il portafoglio e la prospettiva generale sottostante sarà dunque una parte importante dell’asset allocation. In certi casi alcuni complessi scenari macroeconomici perderanno d’importanza, in altri invece saranno i fondamentali di singole società a risultare secondari nell’equilibrio generale. A un investitore cassettista in euro interesserà poco il kiwi (nel senso della valuta della Nuova Zelanda), ma potrà interessargli molto una singola società europea con le sue vicissitudini e prospettive. A un fondo pensionistico canadese potrebbe importare poco del rapporto di indebitamento di una grossa società europea perché avrà deciso a monte di esporsi al suo settore per intero, magari su un benchmark di 600 titoli che ridurranno i rischi delle singole società del paniere. Gli approcci saranno insomma generalmente diversi a seconda di alcune scelte compiute all’inizio o in corso d’opera, ma per tutti sarà importante tenere conto della complessità dei mercati.